jueves, 7 de abril de 2011

Il multiculturalismo non è fallito

Nella conferenza sulla sicurezza di Monaco il premier britannico David Cameron ha denunciato che “il multiculturalismo di stato (nel Regno Unito) è fallito” e che bisogna reagire per “trasmettere il messaggio che la vita ruota intorno a certi valori chiave come la libertà di parola, l’uguaglianza dei diritti e il primato della legge”.


Cameron ha detto che nel Regno Unito (uno dei paesi europei con il maggior numero di grupi etnici integrati nella cultura di città) c’è stata una tolleranza passiva che è rimasta neutrale tra valori differenti. Ha aggiunto che sotto la dottrina del multiculturalismo di stato si è incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate l’una dall’altra senza riuscire a fornire una visione della società, alla quale sentissero di voler appartenere.

Il discorso del premier britannico ci ripropone il dibattito sempre aperto sul multiculturalismo, al riguardo gli anglossasoni hanno fatto con la loro scuola di pensiero un contributo notevole negli studi culturali specialmente dentro la “critica” Scuola di Birmingham, riconoscendo la antropologia culturale e il fatto che la cultura è una costruzione sociale che attraversa diverse culture, persone e ambienti sociali. Nessuno possiede la cultura, la cultura è di tutti e tutti facciamo quotidianamente cultura, ancora di più se riusciamo ad avere un ruolo critico civile e a rispettare le leggi. Per quello c’è un vecchio detto inglese che dice: “in Gran Bretagna tutti siamo differenti”, perché si riconosce la diversità culturale dei cittadini.

La demografia dimostra che nella Europa più sviluppata c’è una scarsa mano d’opera per il lavoro, così certi equilibri socio-economici andrebbero a collassare senza la migrazione. Lo sviluppo e la formazione delle nuove generazioni di cittadini demandono un ripensamento della nozione socio-politica di multiculturalismo, una nozione in cui l’immigrato sia integrato nel tessuto sociale riconoscendo la sua specifictà culturale e i suoi diritti, rafforzando i legami (nella scuola, il comune, la realtà associativa, la chiesa) per integrarlo nella società d’accoglienza.

La categoria immigrato non è sufficientemente riconosciuta nei sistemi politici solo in quelli economici, quindi la figura dell’immigrato è in permanente crisi, solo fino a che gli stessi mmigrati non se ne accorgono di questi vuoti di sistema e riescono loro stessi a ripensare il loro passaggio di immigrati a cittadini, elaborando le loro proprie “micropolitiche di integrazione” nell associazionismo, le coppie miste, nel ambito scolastico, o nel caso deviante delle bande. Comunque rimane sempre la sensazione che per il politico l’immigrato sia un lavoratore a tempo completo senza una cultura d’appartenenza, reti sociali e un futuro da costruirsi in società. Che grosso sbaglio se la pensano così!

In questo contesto le associazioni di immigrati riescono a essere potenziali scuole di cittadinanza e integrazione sul territorio solo quando no diventano autoreferenziali e costruiscono ponti tra il territorio, gli immigrati e le istituzioni rappresentantive della società d’accoglienza. Le associazioni dopo le famiglie degli immigrati sono il secondo nucleo di non dispersione degli immigrati nella società d’accoglienza. Una forma di multiculturalismo dinamico e rinnovatore sta nascendo in queste associazioni, con immigrati capaci di rafforzare competenze, stabilire reti e allentare ai vulnerabili a uscire della solitudine dell’immigrato.

Gli immigrati (donne e maschi) vivono nella città, lavorano e pagano le tasse, giorno dopo giorno diventano cittadini, anche se sono guardati alle volte con disprezzo e distacco, la loro presenza è ormai scontata, perché come ha detto la rappresentante d’una associazione di donne immigrate a Milano: “si devono a abituare a vederci” . Come dire in una società multiculturale l’accetazione dell’altro inizia con l’intercambio degli sguardi.


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