jueves, 7 de abril de 2011

Una generazione di alieni

Ripropongo un articolo di Umberto Eco, in cui dice che i filosofi si sono occupati troppo di politica e meno di attualità, e per questo non sono stati capaci d'interpretare la società contemporanea. Forse è mancato e manca ancora negli studi sulla società un'attenzione più analitica alle culture e la antropologia. Quando ci sono delle nuove società come quelle in qui viviamo adesso: i costumi, le abitudini e gli stili di vita cambiano e si trasformano, bisogna ricuperare un nuovo testo andando a chiedere alle persone sui sentimenti, emozioni, valori, cosmovisioni varie. Insomma stare più vicini alla gente, la sociologia e la antropologia sono discipline che ci permettono di stare dentro la cultura, non guardarla da lontana come se fosse un semplice testo o un oggetto di studio. L'attualità ha bisogno di interpreti della vita quotidiana.

(Inizia l'articolo di Umberto Eco)
I giovani non conoscono la natura e la sofferenza, vivono in un mondo virtuale. Noi filosofi non abbiamo colto la trasformazione perché eravamo troppo impegnati nella politica di tutti i giorni


Penso che Michel Serres sia la mente filosofica più fine che esista oggi in Francia, e come ogni buon filosofo sa piegarsi anche a riflettere sull'attualità. Spudoratamente uso (tranne qualche commento personale) un suo bellissimo articolo uscito su "Le Monde" del 6-7 marzo ultimo scorso, dove ci ricorda cose che, per i più giovani dei miei lettori, riguardano i loro figli, e per noi più anziani i nostri nipoti.

Tanto per cominciare, questi figli o nipoti non hanno mai visto un maiale, una vacca, una gallina (ricordo che peraltro già trent'anni fa un'inchiesta americana aveva stabilito che i bambini di New York credevano in maggioranza che il latte, che vedevano in confezioni da supermarket, fosse un prodotto artificiale come la Coca-Cola). I nuovi esseri umani non sono più abituati a vivere nella natura e conoscono solo la città (ricorderò che quando vanno in vacanza vivono per lo più in quelli che Augé ha definito "non luoghi", per cui il villaggio vacanze è del tutto simile all'aeroporto di Singapore, e in ogni caso presenta loro una natura arcadica e pettinata, del tutto artificiale). Si tratta di una delle più grandi rivoluzioni antropologiche dopo il neolitico. Questi ragazzi abitano un mondo superpopolato, la loro speranza di vita è ormai vicina agli ottant'anni e, a causa della longevità di padri e nonni, se hanno speranza di ereditare qualcosa non sarà più a trent'anni, ma alle soglie della loro vecchiaia.

I ragazzi europei da sessant'anni non hanno conosciuto guerre, beneficiando di una medicina avanzata non hanno sofferto quanto i loro antenati, hanno genitori più vecchi dei nostri (e gran parte di loro sono divorziati), studiano in scuole dove vivono fianco a fianco con ragazzi di altro colore, religione, costumi (e, si chiede Serres, per quanto tempo potranno cantare ancora la Marsigliese che si riferisce al "sangue impuro" degli stranieri?). Quali opere letterarie potranno ancora gustare visto che non hanno conosciuto la vita rustica, le vendemmie, le invasioni, i monumenti ai caduti, le bandiere lacerate dalle palle nemiche, l'urgenza vitale di una morale?

Sono stati formati dai media concepiti da adulti che hanno ridotto a sette secondi la permanenza di una immagine, e a quindici secondi i tempi di risposta alle domande, e dove tuttavia vedono cose che nella vita quotidiana non vedono più, cadaveri insanguinati, crolli, devastazioni: "All'età di dodici anni gli adulti li hanno già forzati a vedere ventimila assassini". Sono educati dalla pubblicità che esagera in abbreviazioni e parole straniere che fanno perdere il senso della lingua natale, non hanno più coscienza del sistema metrico decimale dato che gli si promettono premi secondo le miglia, la scuola non è più il luogo dell'apprendimento e, ormai abituati al computer, questi ragazzi vivono buona parte della loro vita nel virtuale. Lo scrivere col solo dito indice anziché con la mano intera "non eccita più gli stessi neuroni o le stesse zone corticali" (e infine sono totalmente "multitasking"). Noi vivevamo in uno spazio metrico percepibile ed essi vivono in uno spazio irreale dove vicinanze e lontananze non fanno più alcuna differenza.

Non m'intrattengo sulle riflessioni che Serres fa circa la possibilità di gestire le nuove esigenze dell'educazione. La sua panoramica ci parla in ogni caso di un periodo pari, per sovvertimento totale, a quello dell'invenzione della scrittura, e secoli dopo, della stampa. Solo che queste nuove tecniche odierne mutano a gran velocità e "nello stesso tempo il corpo si metamorfizza, cambiano la nascita e la morte, la sofferenza e la guarigione, i mestieri, lo spazio, l'habitat, l'essere-al-mondo". Perché non eravamo preparati a questa trasformazione? Serres conclude che forse la colpa è anche dei filosofi, i quali per mestiere dovrebbero prevedere i mutamenti dei saperi e delle pratiche, e non l'hanno fatto abbastanza, perché "impegnati nella politica di tutti i giorni, non hanno sentito venire la contemporaneità". Non so se Serres abbia ragione del tutto, ma qualche ragione ce l'ha.

di Umberto Eco (18 marzo 2011)
Fonte:  http://espresso.repubblica.it/dettaglio/una-generazione-di-alieni/2147183/18

Il multiculturalismo non è fallito

Nella conferenza sulla sicurezza di Monaco il premier britannico David Cameron ha denunciato che “il multiculturalismo di stato (nel Regno Unito) è fallito” e che bisogna reagire per “trasmettere il messaggio che la vita ruota intorno a certi valori chiave come la libertà di parola, l’uguaglianza dei diritti e il primato della legge”.


Cameron ha detto che nel Regno Unito (uno dei paesi europei con il maggior numero di grupi etnici integrati nella cultura di città) c’è stata una tolleranza passiva che è rimasta neutrale tra valori differenti. Ha aggiunto che sotto la dottrina del multiculturalismo di stato si è incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate l’una dall’altra senza riuscire a fornire una visione della società, alla quale sentissero di voler appartenere.

Il discorso del premier britannico ci ripropone il dibattito sempre aperto sul multiculturalismo, al riguardo gli anglossasoni hanno fatto con la loro scuola di pensiero un contributo notevole negli studi culturali specialmente dentro la “critica” Scuola di Birmingham, riconoscendo la antropologia culturale e il fatto che la cultura è una costruzione sociale che attraversa diverse culture, persone e ambienti sociali. Nessuno possiede la cultura, la cultura è di tutti e tutti facciamo quotidianamente cultura, ancora di più se riusciamo ad avere un ruolo critico civile e a rispettare le leggi. Per quello c’è un vecchio detto inglese che dice: “in Gran Bretagna tutti siamo differenti”, perché si riconosce la diversità culturale dei cittadini.

La demografia dimostra che nella Europa più sviluppata c’è una scarsa mano d’opera per il lavoro, così certi equilibri socio-economici andrebbero a collassare senza la migrazione. Lo sviluppo e la formazione delle nuove generazioni di cittadini demandono un ripensamento della nozione socio-politica di multiculturalismo, una nozione in cui l’immigrato sia integrato nel tessuto sociale riconoscendo la sua specifictà culturale e i suoi diritti, rafforzando i legami (nella scuola, il comune, la realtà associativa, la chiesa) per integrarlo nella società d’accoglienza.

La categoria immigrato non è sufficientemente riconosciuta nei sistemi politici solo in quelli economici, quindi la figura dell’immigrato è in permanente crisi, solo fino a che gli stessi mmigrati non se ne accorgono di questi vuoti di sistema e riescono loro stessi a ripensare il loro passaggio di immigrati a cittadini, elaborando le loro proprie “micropolitiche di integrazione” nell associazionismo, le coppie miste, nel ambito scolastico, o nel caso deviante delle bande. Comunque rimane sempre la sensazione che per il politico l’immigrato sia un lavoratore a tempo completo senza una cultura d’appartenenza, reti sociali e un futuro da costruirsi in società. Che grosso sbaglio se la pensano così!

In questo contesto le associazioni di immigrati riescono a essere potenziali scuole di cittadinanza e integrazione sul territorio solo quando no diventano autoreferenziali e costruiscono ponti tra il territorio, gli immigrati e le istituzioni rappresentantive della società d’accoglienza. Le associazioni dopo le famiglie degli immigrati sono il secondo nucleo di non dispersione degli immigrati nella società d’accoglienza. Una forma di multiculturalismo dinamico e rinnovatore sta nascendo in queste associazioni, con immigrati capaci di rafforzare competenze, stabilire reti e allentare ai vulnerabili a uscire della solitudine dell’immigrato.

Gli immigrati (donne e maschi) vivono nella città, lavorano e pagano le tasse, giorno dopo giorno diventano cittadini, anche se sono guardati alle volte con disprezzo e distacco, la loro presenza è ormai scontata, perché come ha detto la rappresentante d’una associazione di donne immigrate a Milano: “si devono a abituare a vederci” . Come dire in una società multiculturale l’accetazione dell’altro inizia con l’intercambio degli sguardi.