domingo, 20 de julio de 2008

Fattori per una cittadinanza mondiale

Intervento di Franklin Cornejo (educatore nell’Istituto Martinitt e Stelline di Milano) per il convegno “Educazione allo Sviluppo per una Cittadinanza Mondiale Culture, Competenze, Saperi e Curricoli Esperienze italiane e internazionali a confronto” 16 e 17 aprile 2008 – Milano.
Inanzitutto ringrazio a gli organizzatori per il invito, ma mi scuso perche’ non posso esserci qui di persone comunque ci tengo a inviarvi le mie considerazioni riguardo al tema del convegno.
Sono in questi giorni in Peru’ e da qui saluto a tutti con grande piacere. Queste sono le risposte alle 6 domande.
(Grazie, e buon convegno! Milano, 10 aprile 2008).

Domande Tavola Rotonda Mattino (coordinata per Pina Sardella)

Domanda: Pina Sardella (P.S.)
Avendo l’opportunita’ di far dialogare persone impegnate nel processo educativo in paesi ed ambiti diversi, comincerei col chiedere loro cosa intendono per “cittadinanza mondiale”
Risposta di Franklin Cornejo (F.C.)
La cittadinanza mondiale e’ l’opportunita’ che abbiamo tutti noi per fare realta’ che la nostra sfera personale e sociale si possa realizzare dentro una cultura, un comportamento e una pratica per la pace, la dignita’ e la responsabilita’ con noi stessi e con gli altri.
Cittadinanza mondiale e’anche una visione di societa’ che permette capire e mettere in atto azioni civili ed educative in un contesto sociale come quello di oggi, segnato per la globalizzazione, la modernita’, gli incontri tra culture diverse, la immigrazione e campagne a favore della pace e di lotta contra la poverta’.
(Domanda P.S.)
Il processo educativo e’ un atto eminentemente político: presupone si sappia “per quale mondo” si sta educando. Come viene coniugata l’utopia con le concrete condizioni in cui si opera?
(Risposta F.C.)
Le concrete condizioni in cui si opera l’utopia e’ sempre l’educazione.
In un mondo sempre piu’interculturale si fa richiamo a una educazione per l’uguaglianza, al rispetto tra le persone ed alla diversita’ culturale.
L’educazione si svolge con l’essercizio del rispetto altrui, la pratica del ruolo professionale, la vocazione per dedicare tempo e voglia di fare alla comunita’ di significato che ci accoglie come la scuola, la famiglia, il lavoro, la chiesa, l’universita’, il gruppo di amici, etc.
Credere nell’educazione si collega a una visione del professionale con coscienza sociale, impegnato con la sua professione e la societa’.
(Domanda P.S.)
Cosa serve per educare alla cittadinanza mondiale? Ci sono saperi indispensabili? Quali, tenendo conto dell’eta’ dei soggetti coinvolti? e tenendo conto del Paese? della localita’?
(Risposta F.C.)
Penso che sia utile qui, a partire della mia esperienza, sugerire di capire la trilogia societa’, cultura e comunicazione, perche’ ci permette di capire la cultura sociale, la cultura comunicativa e il nostro essere sociale dentro un mondo fatto di persone, societa’ e culture. Come parte dei saperi credo che sia utile proporsi come osservatori attenti della realta’ e protagonisti costruttori di senso e significato. Lo quale si traduce in un interesse per capire le culture e societa’ diverse, svolgendo sempre la variabile educazione nella nostra vita quotdiana.
La metodologia per educare alla cittadinanza e’ piu che altro qualitativa, partecipativa, critica interattiva, di ascolto e di inclussione. L’importanza della cittadinanza mondiale e’ che forma parte dell’educazione alla realta’ attuale.
(Domanda P.S.)
E poiche’ non basta “sapere”, quali competenze debe acquisire chi vuol essere “cittadino del mondo”?
(Risposta F.C.)
Perche’ e’ inanzitutto una pratica, che fa un richiamo a un comportamento sociale coerente al discorso di quello che e’ essere cittadino del mondo.
(Domanda P.S.)
Come definire e articolare il criterio della “responsabilita’”? responsabilita’ di chi? verso chi? a quali condizioni? in che misura?
(Risposta F.C.)
E’ una condizione etica, che fa riferimento al comportamento sociale.
La misura di tutto e’ l’uomo e la donna in quanto esseri intelligenti, capaci di deliberare, capaci di essere consapevoli che la loro condizione non e’ solo personale, individuale, ma anche gregaria, di convivenza, in una rete di relazioni, rapporti e intercambi con il mondo sociale.
Si tratta di una responsabilita’ verso me come persona e soggetto critico e verso gli altri. E’ una condizione di rispetto, dialogo e capacita’ di ascolto. Piu’ che una misura e’una condivisione, una disposizione per l’intercambio, che si realizza nel impegno e il compromesso sociale.
(Domanda P.S.)
Quali esperienze significative sono state sperimentate dai singoli nostri ospiti?
(Risposta F.C.)
Per me la esperienza di educare e sopratutto di imparare degli altri: l’intenzionalita’ di creare, trasformare la realta’ e lottare per una condizione, un’ideale, un sogno. Essere coinvolto nella solidarieta’, il rispetto condiviso. Una esperienza che mi ha permesso di capire che la condizione umana e’ solitaria e contemporaneamente sociale, e che solamente la cultura, l’educazione e la comunicazione possono fare che il cittadino diventi persona e la persona cittadino. Essere cittadino del mondo si realizza quando esiste la liberta’ che implica il rispetto delle norme. Trasgressione e norme, deliberare sul bene e il male sono da sempre le dimensioni dove l’uomo e la donna lottano per diventare persone per il bene o persone per il male.
Essere cittadino del mondo e’ una opzione per fare il bene e per lo sviluppo.

Jean Paul Sartre

Sólo pueden hablar de él hoy, en la realidad de su muerte, unas letras grabadas en la lápida de su tumba: “Jean Paul Sartre 1905-1980”. Su epitafio abarca la memoria del tiempo que no olvida el paso de la historia. Se me hacía imposible, creo que por lo del mito, imaginármelo allí, adentro, en ese bloque de granito blanco, que es su tumba, al ingreso de la puerta principal del Cementerio de Montparnasse en París. Recuerdo que me quedé casi una hora frente a su tumba recordando los textos de su libro, “La náusea”, antes de ir en romería a las tumbas de César Vallejo y de Julio Cortázar, los otros dos inquilinos entre otros muchos de esa extrema morada de ilustres parisinos. En estos días se recuerdan los 25 años de la muerte de Sartre acaecida el 15 de abril de 1980 y sus biógrafos le han dedicado artículos de prensa para recordar la memoria del “escritor-artista” que abrazaba una ética del empeño fundada en la acción y en el hecho de poder justificar su propia existencia solamente en el hacer. “Nosotros somos nuestras acciones, son nuestras acciones las que nos justifican, nosotros condenados a ser libres y que tenemos miedo de la libertad”, decía Sartre.
Roma y Venecia eran los destinos favoritos de Sartre. En Roma pasaba tardes en la Piazza del Pantheon, se alojaba siempre en un hotel de esa bellísima plaza, en compañía de Simone de Beauvoir. Cuenta su amigo italiano, Olivier Todd , en una entrevista publicada por el diario, Il Sole 24 ore, que Sartre no era un buen orador y que desconfiaba de los escritores que saben hablar muy bien. Y que en compensación era divertentísimo. “Hacía reir hasta las lágrimas y tenía un gran sentido del humor”, comenta Todd, que agrega: “tenía una capacidad para hablar en privado, con un torrente de palabras artificiosas, era magnífico”. Del polifacético Sartre político, filósofo y escritor quedan, según Todd, “el Sartre escritor, que podía escribir hasta 14 horas seguidas, y sus golpes de genialidad”. Pero Sartre amaba la paradoja y se dice que una toma de posición de su frase más famosa: “estamos obligados a ser libres” fue rechazar en 1964 el Premio Nobel de Literatura.

Conversando con la hija del reportero Kapuscinski

Para que Ryszard Kapuscinski se convirtiera en el patriarca de todos los reporteros modernos, tuvo que sacrificar a su familia. La fotógrafa Rene Maisner, única hija del desaparecido periodista polaco, lo recuerda en esta entrevista para Variedades (suplemento del diario El Peruano).
A inicios de junio, me cité en Milán, gracias a una periodista freelance polaca, con Zojka Kapuscinska, la única hija del famoso reportero Ryszard Kapuscinski, quien falleció en enero de este año, a los jóvenes 74 años. Sin reticencias, la Kapuscinska, de 50 años de edad, me contó pasajes de su vida y la nueva identidad que lleva por ser hija del infatigable periodista, autor de exitosos reportajes sociales, políticos y humanos. Él escribió sus obras a partir de sus propias percepciones de reportero. En uno de sus muchos libros, Los cínicos no sirven para este oficio, el cronista polaco reivindica la idea que “hay que vivir los hechos con la gente antes de escribir sobre alguien”. Pienso en esto mientras voy al lugar del encuentro con Zojka, una cafetería milanesa de la Piazza del Duomo.
Ya juntos, bebiendo café, se me ocurrió empezar por el fin, ¿cómo vivió la muerte de su padre? “Estoy triste por su muerte, pero feliz porque Kapuscinski logró realizar su identidad en pleno, me contestó, sin vacilar”.
¿Quién es Kapuscinski para Zojka, su hija?
−Fue un padre ausente, que dejó a su familia atrás para dedicarse a su carrera, viajaba siempre y no teníamos temas en común. ‘Tú, fotógrafo; yo, reportero’, me lo repetía él mismo muchas veces. He compartido con mi padre otras cosas y eso ha sido su identidad viajera y el avant-garde del siglo XX, arte que fue nuestro tema en común. Zojka me hace notar que Kapuscinska es la forma femenina de Kapuscinski.
Luego, mientras encendía un cigarrillo, completó: “Pero, en realidad, mi nombre es otro”.“Para los demás yo soy Rene Maisner −me lo subraya en un papel−, la nueva identidad que me hice desde hace 15 años para tomar distancia de mi padre. Yo no he querido ser un apéndice de él y de su fama.
He seguido su carrera fuera de Polonia cuando me fui a vivir a Canadá en los años 70. He leído sus libros y nos veíamos esporádicamente entre Europa y Canadá”. Mujer bajita, cortés, de cabellos oscuros y anteojos redondos, la Kapuscinska se reveló como una gran conversadora en español −estudió el idioma en México y Polonia−. Así, Zojka, quien ahora vive en el Chinatown de la multicultural ciudad de Victoria, en la Isla de Vancouver, Canadá, recordó también que Maisner, su nuevo apellido, se remonta al árbol genealógico alemán de su madre. “Lo mío ha sido un esfuerzo de crear una identidad. Es sobre esto que yo trabajo. Una identidad que supera un nacionalismo y que está superando una visión de género”, me dice.
La identidad interpretativa de Zojka- Rene, la forma como ella ve el mundo, se vincula a lo que decía su padre sobre encontrar “los mecanismos” y “las estructuras” de la realidad, y explicar sus causas apoyándose en la teoría, sin olvidar lo local, las narraciones de la gente y preguntarse desde estas dimensiones ¿por qué pasan las cosas? Sin prisa, bebiendo el café, Zojka me pide cortésmente que cambie de tema, pues la identidad es un tema privado. Allí me acordé de preguntarle una curiosidad libresca.
¿Su padre leía a Malinowski?
−Descubrí un libro en su biblioteca, que era enorme; un libro que parecía estar publicado en los años de 1950. Era un libro de Malinowski. Entonces lo que significa es que él se interesaba en Malinowski desde hacía muchos años, tal vez consiguió el libro en un librero de viejo.La obra de Bronislaw Malinowski, etnógrafo polaco y padre de la antropología moderna, fue de gran influencia en las observaciones y reportajes de Kapuscinski.
Queremos saber más del carácter de este hombre de prensa que vivió en condiciones precarias para entender mejor a sus entrevistados. “Las manías de Kapuscinski −confiesa Zojka− eran viajar con la llave de su casa de Varsovia en los bolsillos como señal de que el viaje terminaba al regresar a su casa. Viajaba solitariamente y leía mucho antes de escribir cualquier cosa. Tuvo un carácter fuerte y carismático. Fue un hombre determinado a luchar. No se distraía en muchas cosas.
Decía siempre que hay que educarse para avanzar. El lenguaje y su forma de vivir el periodismo, viajando y escribiendo sobre violencias, crisis y casos humanos, fueron su principal mensaje para superar las mentalidades obtusas y pesimistas”. De paso por Milán, antes de ir a Polonia, Austria y Ámsterdam, la Kapuscinska me cuenta de su trabajo de fotógrafa. “Mi fotografía es un documento sobre el tema del ambiente, de cómo la gente lo destruye con su actividad de industrialización, urbanización, consumismo y con la basura que deja por todas partes. Presento un collage que se basa en simetrías, pero también tiene un orden que emerge de un caos aparente. Dentro de las composiciones emerge un diseño creado por las líneas y colores que pasan uno a otro; se unen y se desunen.
En inglés se podría decir conjunctive- disjunction”, explica. Zojka expone en una pequeña galería de arte de la ciudad de Victoria, se trata del Ministry of Casual Living. Allí, dejando un día cambia sus instalaciones, se puede hacerlo, pues le gusta la idea de que “las cosas cambien, se mezclen, se muevan y nunca sean iguales”.En esta síntesis de la conversación, la Kapuscinska compartió conmigo algo que también pertenecía a su padre: esa dignidad de los humanistas, que, zafándose de las camisas de fuerza de las identidades cerradas, brilla, como ella, con luz propia.
El cronista viajero Ryszard Kapuscinski –léase capuchisnki–, 1932-2007, estudió en la universidad de Varsovia y fue corresponsal de la prensa de su país hasta 1981 en África y América Latina. Publicó libros fundamentales para los reporteros de raza: El Sha, La guerra del fútbol, El imperio, Viajes con Herodoto y Los cínicos no sirven para este oficio, entre otros.

El Dios escondido

El Papa Juan Pablo II, vivo y muerto, ha recordado al hombre su condición humana: el hecho de ser persona y de ser sujeto y le ha dado dignidad, presentándole con su propia vida, el rostro de Cristo.
Su voluntad, su fe, y su tesón expresados en esos “gestos inusuales del Papa”, que comentan hoy los vaticanistas para hablar del Papa: “viajero”, “carismático”, “mediático”, “juvenil” y “amigo”, han sido la cara, las manos, y los diálogos de la Iglesia católica de los últimos 26 años.
Es por eso que Juan Pablo II, no fue un Papa doctrinario y fue sí un Papa existencial, que supo hilvanar las fibras humanas de su propio drama personal, con su vocación católica y con esa forma de ser suya, única, y autodeterminada de presentarse, como era él mismo, cuando encontraba a los niños, a los jóvenes, y a las culturas de diferentes países del mundo, con una gran empatía y una sonrisa siempre espontánea.
Fue hasta ahora el representante de Cristo en la Tierra que más sonrió y se acercó a la gente.
Juan Pablo II se valió de su propia antropología personal y de la antropología de los demás (porque él tuvo que haber estudiado al hombre y vivir las experiencias del hombre para entenderlo en su complejidad y en sus dramas existenciales), para presentar al hombre, que él mismo se atrevió a representar con su propia vida, en su condición humana más variada: feliz, reilón, comunicador, caminante, sufrido, histriónico, enfermo, anciano y muerto.
Y puso a este hombre moderno, complejo y confundido, al centro de su pontificado. Lo cual no es poca cosa en la época actual de la autosuficiencia, del individualismo, y de la soledad del hombre (del norte y del sur del mundo).
“Hay que entender al hombre en cuanto persona y sujeto, sólo así, la imagen del hombre será correcta y completa”, había dicho en 1995, Juan Pablo II, en unos escritos inéditos de antropología y filosofía tiulados, “¿Por qué el hombre?”.
El Papa demostró hasta el final de sus días que la voluntad y el alma cristiana, pueden contra las enfermedades, las desgracias, y las tragedias personales, contra los miedos, el dolor, y la agonía, que precede a la muerte. Y una vez más él, Juan Pablo II, en esa última aparición pública en Plaza San Pedro, (el 30 de marzo de 2005), se presenta enfermo, adolorido, se toca la frente, trata de hablar sin voz, y antes de bendecir a los fieles, da un puño a su mesa de apoyo, y se va, sabiendo seguramente dentro de sí, que se estaba muriendo, y que la televisión y la prensa del mundo habrían de mostrar su terca fe.
Y lo que sucede en los días siguientes es la representación de la realidad, que ven los medios, con las televisiones y los diarios, que publican imágenes y fotos de la vida del Papa, imágenes, que después de unos días se convertirían en transmisiones ininterrumpidas y flash desde el Vaticano de los funerales del Papa muerto.
Las noches del velorio, la gente no sabe explicar, exactamente, por qué está en la Plaza San Pedro y por qué se queda de pie, sin descanso, durante 11 y hasta 18 horas para ver por unos cuantos segundos el cadáver del Papa. Todos (y yo también estoy parado entre ellos) avanzamos en una procesión muda y sorda que busca sus propias palabras y sus propias respuestas en el recuerdo del pasado, mientras que, “el punto de referencia de los jóvenes”, a los que decía en los encuentros mundiales de la juventud, “el Papa está con todos los jóvenes y con el último que está al fondo de la plaza y que solamente escucha mi voz. Yo estoy con ustedes”, aparece, en un cuerpo inerme, que una vez fue el cuerpo del hombre más visto y más tocado del mundo.
Y no me lo creo, cuando el viernes 8 de abril (del 2005), el día del funeral, veo, en medio de la multitud, mientras su ataúd atraviesa, por última vez, la puerta de la Basilica de San Pedro, llevándose su cuerpo mortal, el llanto, los aplausos de la gente, que allí en medio de miles y miles de personas, entre el desarrollo, las tecnologías de la televisión y rodeado de los hombres más poderosos de la tierra, se daba cuenta que estaba humanamente solo, y que el Dios del que había hablado Juan Pablo II, en estos últimos 26 años, era un Dios escondido, que solo una existencia humana, con una moral, y una fe, como la suya, podía descubrir en su propia vida y en la esperanza de la resurrección.

Las audiencias de la calle

Aquí presento brevemente algunos aspectos generales de mi tesis doctoral, Cornejo (2006), sobre Los niños de la calle del Perú como audiencia comunicativa. Un estudio sobre los usos sociales de los medios en la calle. Pontificia Università Gregoriana. Tesi PUG 008649. Roma.
“Las audiencias de la calle” incluyen a los televidentes y radioescuchas que han migrado (del campo a la ciudad) y a los nuevos ciudadanos que se valen de calles y mercados populares en la ciudad de Lima en Perú para realizar actividades socioeconómicas de subsistencia.
Se trata de una audiencia compuesta por ex campesinos, niños de la calle, comerciantes ambulantes y desempleados. Lo que buscamos aquí no es defender la calle sino entenderla y explicarla a partir de la relación entre medios y públicos. Estamos viendo que la calle en Latinoamérica es un contexto culturalmente diferente al contexto de la casa, con lo cual la experiencia del uso de los medios en la calle cambia respecto al contexto de la casa. Ya Silverstone en su libro Televisión y vida cotidiana (1996) ha hecho notar la importancia de la casa en la cultura televisiva y sus audiencias.
Los estudios de audiencias y sus aportes innegables de parte de Lull, Morley, Silverstone y Tufte, parten del contexto privado de la casa, pero en sus análisis y trabajos de campo de corte etnográfico casi no se refieren o entran a los contextos públicos como la calle, el barrio y el mercado, contextos que se caracterizan por ser lugares y espacios, donde tienen lugar y se dan, como ya lo comentan Martín Barbero y Canclini, intensas relaciones sociales en el mundo popular latinoamericano.
Así, estamos viendo que la calle en Latinoamérica y en especial en el Perú urbano-marginal tiene estímulos socioculturales. La calle y los mercados se han convertido en lugares de encuentro entre lo local y lo global, donde los medios y las relaciones sociales producen comunicación social, generan discursos, y nuevos géneros de origen popular, como la música popular y el video. En estos contextos hay diferentes códigos de comunicación, por un lado mediáticos, y por otro lado, sociales que coexisten y compiten, y en el que prevalece la comunicación oral en espacios colectivos.
Escuchar música popular, ver videos y hablar en el espacio público fuera de la casa es lo que está pasando en las calles y los mercados populares de Lima. Allí sujetos sociales emigrantes y nuevos ciudadanos se están valiendo de la música y la canción popular transmitida por videos musicales (que ellos mismos producen y comercializan), radios y la televisión para organizar sus espacios de enunciación, de conversación, y expresar a viva voz subjetividades migrantes y pensamientos ciudadanos en contextos de exclusión social y pobreza.
No se puede hablar desde los estudios de audiencias solamente de audiencias televisivas en la cultura comunicativa de los populares de Perú y Latinoamérica sino también de audiencias habladas y cantadas (donde las oralidades públicas, no privadas necesariamente, son importantes para comunicar) y de audiencias de la calle en contextos públicos en contacto con el mundo urbano de la casa. Hay una oralidad colectiva poco estudiada en Latinoamérica, que le da ese corte participativo a su comunicación y que hoy se escucha y se habla -en medio de las migraciones, el uso de los medios y las nuevas ciudades- además de la casa también en sus calles y mercados. La pregunta es ¿hasta qué punto las audiencias de la calle, en lo oral y lo público, mantienen la identidad endógena de los latinoamericanos?

Claves de lectura

La certeza de la hipótesis, la intuición de la idea y la espiritualidad mueven a creer en un proyecto potencialmente factible, porque a la raíz de todo esto se encuentran dos elementos claves de la empresa intelectual (razonada) : la idea y la fe. Dos monolitos que reúnen -en un sentido inductivo, es decir de abajo hacia arriba- el impulso espontáneo, el sentimiento, y la pasión por algo.
Los factores que se encuentran como constantes en la vida de los teóricos, los pensadores, los críticos de las corrientes de pensamiento y de la ciencia humana son unas ideas por una tesis clara, coherente y sistemática en el tiempo. Y una carga espiritual impulsada por una fuerza mística que proviene de una serie de centros de pensamiento o centros espirituales, como la universidad y la biblioteca, que esta en la urbe, en la polis, donde se produce el sentido y la razón o en medio del misterio. En el Himalaya, en los Andes, en la Selva Negra alemana, en los desiertos árabes y en las Sabanas africanas, centros para decirlo con las categorías sociológicas de Emile Durkheim, donde el « objeto sagrado » es la naturaleza y el « estado mental » es la sensibilidad del hombre frente a la naturaleza.
Los teóricos de la historia han costruido una idea (el marco teórico sobre la base de una hipótesis) y han encontrado un punto de referencia espiritual, la fe, que directa o indirectamente, alienta el pensamiento y la dignidad del hombre.
Pienso en los jesuitas y su lema de acción “ad majorem dei gloriam” (a la mayor gloria de Dios), en los geógrafos como Cristobal Colón, que intuyó otras tierras más allá del pesimismo de su época, en los indígenas del Perú, (no en el desarrapado sino en el ser humano que han interpretado, Mariátegui, Vallejo, Arguedas, Porras Barrenechea, Scorza, Sabogal, Nathan Wachtel, Von Hagen, Prescott y María Rostworowski), en ese indio peruano que continua, en silencio, una tradicion oral desde tiempos preincaicos, en Foucault que diferencia una consciencia trágica y una consciencia crítica y en todos aquellos que han generado corrientes de pensamiento y tendencias culturales.
En todo este viaje del hombre hacia el ignoto, hacia la búsqueda de las respuestas que lo mueven al conflicto y la alienación está también el método, el mito y el imaginario de una cultura.
La cultura es como el agua en que nada el pez, sin agua el pez muere, de allí viene la importancia de interpretar las culturas para vivir en ellas e intuir sus destinos históricos. Como pruebas están los trabajos clásicos de la antropología escritos por Clifford Geertz, Lévi-Strauss y Oscar Lewis.
Después de estudiar una serie de familias y su relación con la televisión en los cinco continentes, el norteamericano, James Lull, en su libro “World Families Watch Television” (1988) llegó a la siguiente conclusión sobre el poder de la sociedad, la cultura y la comunicación, “no todo el placer y el poder son políticos o económicos, también son simbólicos y culturales”.
Kant habría sugerido en una entrevista imaginaria escrita por el filósofo francés Andre Glucksmann, que los pensadores y los poetas prefieren las sociedades felices y pacíficas, donde libran una « kampfplatz », una « lucha sin fin », la batalla de una razón que decide desafiar la estupidez, los entusiasmos y la locura.
La cultura en el mundo académico busca ser critica y actualizada, un trabajo crítico que debe ser biográfico y no mera voluntad.
La crítica de la lectura, leer y compartir lo leído, en el encuentro con el interlocutor en la tertulia, debería generar una interpretación y nuevos significados que nos ayuden a comprender y proyectarnos en la vida cotidiana y futura.
No estamos muy lejos de esa dimensión, allí están los libros, las bibliotecas, la televisión (como representación de diversos fragmentos de la realidad humana), los intelectuales, las corrientes de pensamiento, la prensa seria, las regiones geográficas con culturas antiguas y nuestra particular predisposición peruana a socializar.
La cuestión es ver esto con una mentalidad abierta, culturalista y descifradora, en una sociedad del conocimiento, que ha dejado de ser solamente una sociedad de la información y se ha abierto a un vaivén de intercambios e influencias que son necesarios entender para un justo intercambio de conocimientos y experiencias. Interpretar y deliberar podrían ser las claves de lectura.
Esto de la idea y la fe, en el proyecto intelectual y en el proyecto de vida, no es una fórmula fija. Max Weber decía que « las cosas de la vida no son procesos cumplidos, son más bien un resultado siempre abierto a dinámicas contradictorias y al peligro de detenerse o caer ».

Audiencias musicales del mercado popular

En las calles de Lima los sectores populares tienen poder musical y eso es evidente en su realidad más emblemática: el mercado popular.
En la Lima de los conos emergentes y ya no tan emergentes (véase el caso del desarrollo económico de Lima Norte) las relaciones sociales y laborales, las reuniones y conversaciones de los comerciantes informales y neo-formales (de los nuevos centros comerciales) tienen siempre un fondo musical.
Se escucha música por todos lados y hay música para todos los gustos, bolsillos y estados de ánimo. Aunque algunos dicen que hay más ruido que música pero eso es una cuestión de percepción y de contrapuntos entre culturas diferentes.
La música popular de Chacalón y Selene (por citar dos ejemplos) es hoy la panacea, el alivio y el consuelo del ambulante, comerciante o cliente, en el mercado y en las calles limeñas. Si, y hasta para los choferes de combis y sus cobradores escuchar música en pleno servicio de transporte de pasajeros se ha convertido en una forma de protesta social, despeje y consuelo existencial. La salsa sensual, la technocumbia y el reggaetón, el rock en español y las baladas románticas son también extensiones de ese disímil auditorio de radioyentes pasivos y activos de Lima.
Y esto no es poca cosa si se ve que la mayor parte de limeños pasa hoy varias horas del día viajando en una combi y entrando y saliendo de su casa, de la calle y del mercado, ya sea como transeúnte, comerciante o cliente. En esos espacios y situaciones hay tres constantes cotidianas: gente reunida, gente conversando y música.
Es decir hay colectivismo, oralidad y música, tres características comunes de la diversidad cultural del Perú de masas. Aquí –sugiero– que el concepto de “auditorio crecientemente unificado” que han creado los medios de comunicación del que habla Guillermo Nugent tiene más sentido si se lo ve desde esas dimensiones socioculturales.
Existen muchos referentes de socialización y áreas comunicativas dentro del mercado popular, que día a día negocia sus significados de vida y su lugar en el país, en la música que ponen, y ven, y en las conversaciones que producen.
La calle al igual que la casa es importante para el peruano porque es un referente socializador en su vida. ¿La música que se escucha en el espacio público y el mercado popular pueden ayudar a entender la mentalidad y la idiosincrasia del peruano de hoy? Yo creo que si hasta cierto punto. Mis estudios de campo sobre las audiencias mediáticas del mercado me dan esos datos.
La incertidumbre, el sufrimiento y el aburrimiento, las ilusiones y la tenacidad de todos esos peruanos, hombres y mujeres, niños, jóvenes, adultos y ancianos, que forman parte de ese precario Perú ambulante de los mercados y de la calle tienen las letras y las melodias de una canción.
La música masiva –la chicha y la technocumbia- que ha producido esa cultura de mercaderes ambulantes y mercados populares (casi la mitad de la PEA de Lima) es una muestra de ello. Hay hasta discotecas de cds y dvds y vídeotecas de alquiler y venta de esa música masiva que alienta (y aplaca emocionalmente) la invención de lo cotidiano (el término es de De Certeau) entre las personas y los colectivos del mercado y de la calle.
La cultura masiva en Lima está formando hoy sus valores y mentalidades en el contexto del mercado popular y a fuerza de música masiva, pero también claro que si, con las melodramáticas telenovelas y las películas de acción, que se puede ver entre uno y otro vídeo de música vernacular de cantantes folclóricos, de la sierra, la costa y la selva, consagrados y en ciernes.
La globalización mediática y parte de la cultura ‘intercultural’ del país, con su forma de ser y de querer ser, se ve y se escucha hoy –ese es el escenario intercultural masivo– en la vida cotidiana musical y pública de los mercados populares de Lima.